La sottile cresta tra il Brecciaro e l'Elefante

Una piccola chicca dei monti Reatini


Per gli ultimi due mesi le montagne sono state solo dei profili che seguivamo con nostalgia da fondo valle, percorrendo la Salaria, oppure, come qualche volta è stato, in sella allo scooter, viaggiando lentamente per le aggrovigliate stradine che girano attorno ai Sibillini; era un modo, e ci è bastato, per viverle e respirarle, per non sentirne completamente la mancanza, era un modo per sentirsele comunque addosso. Qualche volta si deve, a volte anche per lungo tempo, ci sono dei momenti che bisogna saper mordere il freno per attendere quelli migliori; non è poi così brutto, salgono le nostalgie, apprezzi i periodi in cui puoi e non perdi occasione, si moltiplicano i progetti, diventano bellissimi i momenti in cui vai a ficcarti in qualche trattoria spersa in quei paesini alle pendici dei monti e ti sale dentro la voglia di tornarci. Ti sale così tanto che alla fine il desiderio straripa e diventa smania, ti sembra ti star a tradire un amico, e allora devi andare a ritrovarlo; andiamo? Dai, proviamoci, siamo noi due ci siamo detti, dove arriviamo mettiamo il segno e torniamo indietro, male che va finirà in trattoria. Avevo giusto un piccolo desiderio che giace nel cassetto dai tempi dell’escursione al Cambio, e l’ho proposto a Marina, un piccolo anello di nemmeno sei chilometri e con meno di cinquecento metri di dislivello da superare; un piccolo percorso ma di grandissima soddisfazione che potrebbe davvero fare al caso nostro, o almeno era la mia speranza. Così ci siamo trovati a ributtarci giù dal letto che era ancora buio, con l’entusiasmo di sempre abbiamo riprovato quel sapore buono che sa di eccitazione per andare incontro alle cose belle. Direzione Terminillo. Superiamo il rifugio Sebastiani di un paio di tornanti, a quello successivo parcheggiamo accanto alla palina che indica un mare di direzioni e sentieri, la stessa partenza di quando in primavera siamo andati al Monte di Cambio. Prendiamo a salire la piccola traccia accanto alla palina, tra l’erba, di traverso, raggiungiamo facilmente il colletto in cresta poco sopra, senza percorrere la polverosa strada. Il sole con un fendente luminoso, dal fianco del monte Elefante, illumina la cresta ma non riesce ancora ad entrare in fondo a valle Capo Scura, anche le pareti Nord del Brecciaro e dell’Elefante sono al buio e incutono ancora più rispetto. Tutta la dorsale Nord della valle è invece splendidamente illuminata, il Porcini fino al Cambio e più lontano le linee della Laga, si esaltano confrontandosi col cielo azzurro mentre il verde delle preterie in quota, che ormai prende a spegnersi per l’inoltrarsi dell’autunno, si confondono nello scuro dei boschi di fondo valle. Qualche giallo inizia a spiccare tra il fogliame ma è poca cosa, ci vorrà ancora un po’ di tempo per l’esplosione dei colori. E’ bello riavere tutto questo grande orizzonte davanti, questo mare di colori, di linee, di contrasti e quest’aria fina che ti accarezza la faccia; è tutto tanto e bello, guardi tutto e tutto sembra troppo, non riesci a fermarti su un particolare, senti solo che ti appartiene da sempre, che si sta riempiendo l’anima, e ci si accorge che quell’amico dimenticato per un po’ non si è affatto offeso, anzi ti sta regalando gioia che di più non si può. Dalla selletta prendiamo a scendere per la strada brecciata che scorre in valle, un paio di tornanti e scesi di una cinquantina di metri siamo al bivio dei sentieri, a sinistra tra le gobbe erbose il sentiero sfila verso il traverso che porta al Porcini e al Cambio, prendiamo sulla destra continuando per un breve tratto sulla strada; dal bivio si vede già una piccolissima traccia, un paio di centinaia di metri più avanti, che si stacca dalla strada sulla destra , la cerchiamo e la individuiamo a fianco di una roccia dove una bandierina CAI ormai sbiadita conferma che di sentiero si tratta, il 433 sulla carta dei Monti Reatini – Terminillo, 1:25000 delle Edizioni il Lupo. A tratti evidente a tratti meno si stacca quasi parallelo dalla strada, scorre su un fondo ciottoloso fino al limitare del bosco che ci aspetta più avanti. Quando il terreno si fa erboso la traccia si perde un po’, e quasi non ce ne è più evidenza, proviamo ad aggirare il bosco verso l’alto ma si entrerebbe nella testa della valle, c’è solo il solito ghiaione ripido e nessuna traccia di sentiero; Marina insiste a cercarlo più a sinistra ed ha ragione, una valletta stretta si infila nel bosco dove davvero non mancheranno più segnavia di fresco dipinti. Col senno del poi una volta trovato il sentiero battuto, sarebbe convenuto non prendere la traccia che si stacca dalla strada ma sarebbe stato il caso di arrivare al primo secco tornante un paio di centinaia di metri più avanti, da lì inoltrarsi al limite del bosco e finire per entrare nella valletta per prendere il sentiero. Per un breve tratto si attraversa un bel bosco fino ad uscire dentro il catino della testa della valle; la prateria contende il terreno alla pietraia, il sentiero si snoda tortuoso tra doline e piccole creste al limitare del bosco, poi traversa verso la ripida parete dell’Elefante, ed entra nell’ombra, la stessa che incupisce la parete rocciosa e ripida della montagna. Il sentiero che dovremo percorrere inizia dai ghiaioni alla base della parete, è visibile già da lontano, ci si deve destreggiare tra qualche roccia più grande e lo si imbocca accanto ad una pietra dove da poco è stato rinfrescata una bandierina bianco-rossa. Dalla base appare estremamente meno ripido di come si vedeva dalla selletta, o dal versante opposto, si stacca in un traverso che sale lento e costante, si avvicina gradatamente alla roccia ed è praticamente visibile fino alle pendici del Brecciaro; l’ultimo tratto, quello che sale in cresta, che non è ancora intuibile, lo andremo a scoprire più tardi. Ci si alza sulla valle camminando sempre sul limitare del ghiaione, il fondo ormai è ben assestato e si avanza spediti. Incontriamo su percorso dei grossi cuscini di lana, stropicciata e ammatassata, sembra come se una pecora fosse stata scorticata; poco più avanti la carogna, ormai aperta e violentata, ne giustifica l’ipotesi costruita. Siamo sotto la parete, fuori dal bosco e ancora sulla pietraia, dal momento che in zona lupi non ce ne sono ho immaginato che una pecora possa essere caduta dall’alto, non trovavo altra spiegazione a quella presenza. Un bel volo certo, improbabile per una capra o un camoscio più facile per una pecora meno avvezza alle rupi; comunque un incontro che mi lascia per un attimo interdetto. In meno tempo di quello che potevamo pensare siamo già in alto, sempre in ombra, con l’affaccio sulla valle sempre più ampio, si comincia ad intuire anche quel pezzo di sentiero che manca per salire in cresta; non si arrampica diretto verso la vetta, si infila nell’ultimo fosso che scende e vira sulla sinistra seguendo il profilo della spalla che scende dalla cima, l’aggira ed uscendo al sole si riavvita in frequenti zig-zag fino all’ultimo traverso corto che conduce in cresta. Da qui, in mezzo all’erba di nuovo alta, dai riflessi color oro perché colpita da un sole radente, la cresta che sale all’Elefante è un quadro superbo e suggestivo insieme, un po’ di timore reverenziale quasi lo incute. La serie di gobbe rocciose e i sottili fili di cresta dividono la parete buia a Nord, alla cui base siamo appena sfilati e il calderone erboso che scende dal profilo del complesso Elefante-Valloni ormai evidente. Quella scomposta, ripida e sottile cresta che si alza per circa centocinquanta metri fino alla vetta dell’Elefante attira con la sua bellezza ruvida e suggestiva e con le sue esposizioni notevoli e nello stesso tempo respinge; l’abbiamo già percorsa tre d’anni fa eppure al primo sguardo (ma anche al secondo e al terzo) si fa temere ancora. Ricerco da lontano alcuni passaggi chiave particolarmente esposti, un paio me ne ricordavo, ora invece mi sembra composta da una serie infinita di stretti passaggi, da una lunga sottile rampa verso il cielo dove davvero è bene non sbagliare un passo. L’abbiamo percorsa e lo rifaremo, per ora ci rilassiamo ai tiepidi raggi del sole, in un clima piacevolissimo come solo l’autunno riesce a regalarti. Alla faccia delle minacciose previsioni meteo l’orizzonte è pulito e vasto, Il Porcini ed il Cambio delineano verso Nord l’orizzonte vicino, più dietro emerge il monte Vettore e sfilano Laga e Gran Sasso come fossero un’unica catena montuosa; confusi nell’umidità dell’aria, più a Sud, la Majella ed il Velino, fino ai lontani Marsicani, sono linee che si elevano e si susseguono come onde nel mare nell’aria azzurra delle tenui nebbie di questo periodo. Impossibile non pensare al dramma che si è consumato tra quelle valli e su quelle montagne, stride la bellezza che vivi e l’idea che tutto questo bello è insieme causa e motivo di tanto dolore. Siamo piccoli davanti a questi orizzonti, siamo piccoli in mezzo a queste montagne, siamo ancora più piccoli davanti alla forza della natura. Distolti i tristi pensieri , dopo tanta lontananza forzata ci sembrava comunque un regalo tutto questo, ci sembrava il giusto premio a tanta sobria pazienza. Dalla parte opposta la già citata e temuta cresta fino all’Elefante e quella più familiare del Terminillo chiudevano l’universo montagna da cui eravamo avvolti. Più di venti minuti siamo rimasti in vetta, non avevamo fretta, il giro era breve, stavamo in paradiso. Riprendiamo a scendere dalla stessa parte di dove siamo arrivati, un primo breve tratto comodo e siamo già nel mezzo della cresta che intorno ha solo sprofondi inguardabili. In alcuni tratti il sentiero si arrotola su se stesso con brevissimi tornanti per superare le ripide e sottili gobbe, in altri si snoda in bilico tra i precipizi e piatto sulle lame di cresta che dividono le gobbe. Un passaggio subito dopo la prima gobba sembra un camminamento costruito dall’uomo, pochi metri, circa tre o quattro, largo da settanta a trenta centimetri, lastricato quasi fosse un marciapiede termina con un omino per fortuna solido e un metro ancora da attraversare dove di piano non c’è più nulla. Di qua e di là solo vuoto, a Nord, sulla destra un salto verticale di una trentina di metri che poi fugge via sui ghiaioni sottostanti, a Sud, sulla sinistra più o meno è la stessa cosa ma almeno non precipita e degrada sempre ripido ma con una pendenza meno fastidiosa. Sono sensazioni di quel momento, ero lì perché volevo rivivere bene quel passaggio ma è stato inutile, la concentrazione per non commettere errori non permette di fermare il pensiero su altro; confido nelle poche foto del prima e del dopo per vivere i dettagli di quel tratto. Con la consapevolezza che servisse solo un passo certo e movimenti sicuri sono passato trattenendo il fiato, mi sistemo nel poco spazio che ho a disposizione prima della gobba successiva, in bilico sul versante ripido ed anche un po’ sdruccioloso che da a Sud, mi piazzo bene e do l’OK a Marina per passare. In piedi nel tratto più largo preferisce chiudere a cavalcioni il tratto più stretto, mi faccio consegnare i bastoncini le sue mani sono libere di trovare appigli. Nell’ultimo passo, dove non ce ne sono più gli tendo una mano solo per avere un punto di riferimento, passa agilmente, è stata grandiosa e leggera. Siamo in un fazzoletto di cresta dove quasi non abbiamo spazio per girarci e nonostante tutto è entusiasmante da matti. La gobba che si alza ora davanti, appiccicata a noi, è molto verticale, e rocciosa per fortuna, ripiego i bastoncini di Marina e li ripongo nello zaino, i miei sono penzoloni inanellati ai polsi. Parto io, per fortuna anche se il tratto è sottile ed esposto la roccia è buona, pochi gradini appoggiati e si ritorna a camminare, do l’OK a Marina e approfitto per fargli qualche foto. Ci muoviamo uno alla volta per evitare che incaute cadute di sassi possano sorprendere chi è sotto. Le gobbe si susseguono, saliamo e scendiamo di continuo ora più ed ora meno esposti, mai completamente rilassati ma sempre molto carichi ed eccitati. Anche i passaggi tra una gobba e l’altra si defilano sottili e panoramici, l’esposizione a tratti è più lontana ma mai sparisce del tutto. Si avvicina quel tratto instabile e friabile che ricordavo, è l’attacco alla parte finale della cresta, quando si inizia a salire verso la vetta e le gobbe sono terminate. Prima di attaccarlo c’è l’ultimo momento infido ma che consideri tale solo una volta che sei passato; roccia ed un filo di piccole cengie scomposte che permettono di appoggiare mezza suola, una decina di metri di lunghezza e solo mezzo dal bordo della cresta che in buona sostanza usi per aggrapparti, sotto verso Sud sfugge il catino sottostante con una pendenza non verticale ma di certo improbabile da affrontare disarrampicando. Quando sono oltre la cresta sottile, sotto il tratto di sfasciume da affrontare mi volto per fare qualche foto a Marina ed è in quel momento che mi accorgo dove sono passato, una vera lama di roccia, un muro sottile che precipita a piombo verso Nord e che degrada verticale a Sud leggermente appoggiato. Il buio del versante Nord amplifica l’impressione di vuoto ma incute solo prudenza, non timore, sorprende ed esalta nello stesso momento. Riparto e per una decina di metri gradoni ripidi, scomposti e privi quasi di appigli sono infidi da affrontare, il rischio di far precipitare rocce e sfasciumi è alto, come quello di scivolarci sopra, ci muoviamo uno alla volta; lo ricordavo bene, è per me il tratto più difficile e insicuro di tutta la cresta, lo è stato la prima volta e lo è oggi. Anche i ciuffi d’erba, con molta prudenza, servono per farsi sicurezza in questo tratto, l’importante è progredire lentamente e assicurandosi di volta in volta, stabilizzandosi ad ogni passo, senza avere fretta; poi, quando ti accorgi che le mani non servono più e ci si rimette in piedi e si riprende ad usare i bastoncini capisci che sei fuori e che è finita. Marina mi segue, è più agile e più sicura di me in questo tratto, bello vederla districarsi ed esaltarsi, sorride, non patisce affatto l’esposizione. Ora rimane solo la rampa finale, è ripida ma d’ora in poi si camminerà fino in vetta. Un elicottero del soccorso è impegnato nelle esercitazioni di recupero sugli spigoli del Brecciaro e ci da l’occasione per fermarci e riposare; che bello vederli districarsi tra verricelli e recuperi, loro si che osano! Sbuchiamo in vetta, è finita e ci rilassiamo, siamo soddisfatti, lo sono tantissimo per Marina, davvero si esalta in tratti così misti tra esposizioni e passaggi sottili, rocce è scivoli erbosi. Si vede che ha avuto una buona scuola. Sul Valloni c’è un bel mucchio di escursionisti, sull’Elefante invece non possiamo nemmeno sederci un attimo per riprendere fiato, sulla tonda e stretta vetta deve aver stazionato a lungo un grosso gregge di pecore, … credo di essermi spiegato. A proposito di pecore, credo sia più che giustificata l’ipotesi della caduta che avevo fatto quando ho incontrato la carcassa di sul sentiero giù sotto, deve aver fatto davvero un bel volo, povera pecora. Ormai il breve anello è quasi terminato, prendiamo a scendere la ripida e larga dorsale Ovest dell’Elefante, su un bel sentiero percorriamo la cresta che chiude la valle Capo Scura, ora sul filo ora aggirando le piccole vette rocciose arriviamo in vista del rifugio Sebastiani e del sinuoso nastro asfaltato che scende dalla sella di Leonessa. La giornata è andata come doveva, il percorso è stato breve, adatto alle esigenze di questo momento, ci siamo divertiti davvero tanto, senza fretta e godendo della meravigliosa giornata e dei panorami conosciuti ma non per questo meno belli da vivere; molto bello il sentiero che attraversa in valle, sotto il monte Elefante fino al Brecciaro, mai percorso fino ad oggi si è dimostrato meno ripido di quello che mi aspettavo, affatto ostico e molto panoramico; entusiasmante ed è dire davvero poco, è la cresta invece che corre fino alla vetta dell’Elefante stesso, dal versante Est, poco oltre il Brecciaro. Uno spigolo sottilissimo, una cresta composta da svariate gobbe collegate da passaggini davvero sottili ed in bilico tra due versanti strapiombanti. Ero già stato su questo sentiero, salendo però da Micigliano, questa volta ho potuto godermi ogni attimo, esagerare anche con le foto dei vari momenti cruciali per portarmi a casa ricordi più nitidi. E anche dopo questa esperienza confermo la prima impressione che ho avuto, rimane un percorso escursionistico ma che non può essere adatto a tutti; esposizioni notevoli, passaggi stretti, in alcune situazioni spazi ridotti per sostare in più di una persona e creste sdrucciolevoli in alcuni punti, sempre ripide ed esposte. Un percorso dove un minimo di esperienza in più serve insomma e dove occorre essere avvezzi al passo sicuro e al gesto rapido a proprio agio nelle forti esposizioni. Di certo più facile da percorrere in salita, non oso pensare alle difficoltà se percorso in discesa dall’Elefante. La cosa più bella di oggi è stato però ritrovare il sorriso e la passione sul volto di Marina, ha dimenticato tutto, compresa la sua schiena anello debole di questa grande montanara, ed è volata su ogni difficoltà e in ogni situazione. Presto, ne sono certo, tornerà a vivere la sua passione come gli è sempre venuto bene. Nonostante tutto la giornata si chiude però con una delusione che forse è qualcosa di più grande di una semplice delusione; il rifugio Sebastiani è chiuso. Il gestore ha lasciato ed il CAI di Rieti non ha ancora dato la concessione ad altri. Le nostre montagne continuano a perdere i pezzi e se a rimanere chiuso, speriamo per poco, è un rifugio come il Sebastiani al Terminillo sempre molto frequentato e facilmente raggiungibile il futuro non può essere roseo. Per mangiare siamo scesi dalla montagna e la sorte ci ha sorriso: A Lisciano, al ristorante la Cantina, beh, da mangiarsi anche le sedie, il suo numero l’ho inserito in rubrica.